IL TRIBUNALE Sciogliendo la riserva di cui all'udienza in camera di consiglio dell'11 novembre 1999, pronuncia la seguente ordinanza; Premessa Con istanza presentata nell'interesse di Mandala' Antonino, nato a Palermo il 31 agosto 1966, veniva chiesta la revoca, ex art. 673 c.p.p., della sentenza emessa dal pretore di Palermo in data 2 aprile 1998 con la quale il predetto Mandala' e' stato condannato alla pena di giorni venti di reclusione (pena sospesa e non menzione) per il reato di otraggio a un P.U., divenuta irrevocabile il 14 maggio 1999. All'udienza dell'11 novembre 1999, svoltasi nell'assenza dell'interessato, il difensore insisteva nella richiesta e formulava in via preliminare - illustrando il contenuto di una memoria gia' depositata in atti - una eccezione di legittimita' costituzionale del secondo comma dell'artt. 2 del c.p. nella parte in cui non prevede che il debito di rimborso delle spese processuali cessi, in quanto effetto penale, nel caso di condanna per un fatto che, secondo la legge posteriore, non costituisce reato. Il p.m. di udienza non si opponeva all'istanza di revoca della sentenza e nulla osservava sull'eccezione di illegittimita'. Rilevanza della questione Ritenuta la propria competenza, osserva il decidente che, prima di valutare la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, deve essere verificato se la stessa abbia rilevanza nel caso di specie, ossia se il giudizio pendente non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione stessa (ex art. 23 legge cost. 11 marzo 1953, n. 87). Si impone, quindi, una riflessione preliminare riguardo alla depenalizzazione invocata nel presente giudizio e sugli effetti che ne conseguono. Se e' indubbio che l'art. 18 (entrato in vigore in data 13 luglio 1999), ha espressamente abrogato alcune figure illecite, tra le quali anche l'art. 341 del c.p., rimane da verificare se per l'oltraggio a un P.U. si tratti di una semplice abolitio criminis, riconducibile nell'ipotesi del secondo comma dell'art. 2 c.p., ovvero se a seguito di questa modifica normativa non riprenda vigore, per un fenomeno di espansione normativa, la fattispecie relativa all'ingiuria, di cui all'art. 594 c.p. o quella della minaccia di cui all'art. 612 c.p., eventualmente aggravate ai sensi dell'art. 61, n. 10 stesso codice, cosi' da configurare soltanto una modifica del trattamento sanzionatorio, riconducibile nel terzo comma dell'art. 2 menzionato, con le note conseguenze in tema di intangibilita' del giudicato penale. La questione, malgrado la norma sia entrata in vigore di recente, ha gia' costituito oggetto di alcune pronunzie giurisprudenziali di merito di segno non conforme. Da un lato, infatti, si e' sostenuto che non sussisterebbe rapporto di specialita' tra l'abrogata fattispecie di oltraggio ad un P.U. e quelle di cui agli artt. 594 e 612 c.p. cio' richiamando l'orientamento della Corte costituzionale (ord. n. 134/1983) secondo cui con le fattispecie di cui agli artt. 594 e 341 c.p.: "si e' inteso tutelare beni giuridici ben diversi, giacche' nell'una sono presi in considerazione l'onore ed il decoro del privato cittadino mentre nell'altra e' protetto il prestigio della pubblica amministrazione nel suo funzionamento attraverso l'opera dei pubblici ufficiali (sentenze n. 22/1996; 109/1968; 51/1980 ed ord. 20/1983) che, percio', non puo' essere accolta l'opinione secondo cui l'oltraggio non sarebbe nient'altro che un ingiuria aggravata dalla qualita' di pubblico ufficiale". Secondo questa impostazione si perviene alla conclusione che a seguito dell'abrogazione del reato di oltraggio la fattispecie non debba automaticamente ricondursi negli illeciti ancora vigenti (ingiuria e minaccia) con la conseguente applicabilita' dell'istituto della revoca della sentenza ex art. 673 c.p.p. (cosi' tribunale di Arezzo 29 luglio 1999, in veste di giudice dell'esecuzione). Di contro si e' sostenuto che la sentenza di oltraggio a P.U., divenuta irrevocabile, non puo' essere revocata pur in presenza dell'intervenuta abrogazione della relativa fattispecie, ricorrendo una ipotesi di mera successione di leggi, in quanto le condotte dell'art. 341 c.p. non diventano penalmente lecite ma vanno a ricadere nell'ipotesi dell'ingiuria, aggravata ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p. Questo secondo orientamento (seguito in particolare dal tribunale di Rovigo ord. 29 sett.-4 ott. 1999) trae fondamento dalla valutazione di fondo secondo la quale "l'ipotesi di oltraggio era una classica ipotesi di norma speciale rispetto a quella sull'ingiuria". A parere di questo giudicante le due opposte tesi sopra delineate (che rappresentano efficacemente i due estremi intrpretativi) contengono entrambi degli argomenti giuridici condivisibili che solo all'apparenza sono tra loro inconciliabili. Invero se sussiste una eterogeneita' nelle fattispecie di ingiuria e dell'oltraggio, piu' volte ribadita dalla giurisprudenza e dalla dottrina, basata sulla diversa natura dell'interesse giuridico tutelato in via primaria e' pur vero che i due reati possono contenere un nucleo comune. E' ben noto, infatti, che l'oltraggio ha avuto nel nostro ordinamento un'autonoma disciplina volta a tutelare l'onore ed il prestigio del p.u., dovendosi intendere a tal fine per "onore" le qualita' morali della p.o. e quanto al "prestigio" quella particolare forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto passivo ed attinente alla dignita' ed al rispetto di cui la pubblica funzione deve essere circondata. La tutela penale fin ora svolta in questo campo e' stata distinta dal soggetto che, di volta in volta, ha materialmente incorporato questo interesse di natura pubblicistico, con la conseguenza diretta che il bene giuridico protetto dall'art. 341 c.p. e' stato ritenuto il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione e non quello della persona del pubblico ufficiale che riceve protezione soltanto riflessa ed occasionale. Tra le conseguenze piu' immediate di questo sistema vi era che l'oltraggio si riteneva configurabile anche se il destinatario delle espressioni non si fosse sentito offeso nel prestigio personale e derivava per questo la procedibilita' d'ufficio. Diversa e' la situazione dell'ingiuria, tipico reato contro l'onore della persona, che presuppone come unico elemento caratterizzante che il soggetto passivo sia stato offeso e che abbia recepito come offensiva la condotta, tanto da determinarsi a sporgere la querela per consentire l'avvio dell'azione penale. Non e' quindi del tutto corretto ritenere che l'oltraggio sia sempre un'ipotesi speciale della piu' ampia figura del reato di ingiuria, in virtu' di una sorta di automatismo, potendo ben ricorrere dei casi in cui, in concreto, una frase o un comportamento sia potenzialmente oltraggioso, perche' lesivo del prestigio della pubblica funzione, senza che per questo ricorra parallelamente una figura sottostante di ingiuria diretta al soggetto che nel momento impersona quella pubblica funzione. Ed e' evidente che in questi casi, eliminata con la novella normativa la figura dell'oltraggio, non residua nessuna altra ipotesi illecita (neanche procedibile a querela). Per conseguenza, anziche' tentare di ricondurre il fenomeno dell'abrogazione normativa in esame in categorie giuridiche astratte (abolitio criminis - successione di leggi penali) che potrebbero risultare in parte falsate, si impone una valutazione, caso per caso, riservata al giudicante per verificare se nella singola la fattispecie sopravviva un'altra figura illecita tenendo conto della relativa contestazione operata nel giudizio. Questo metodo interpretativo, peraltro, non pare dissimile da quello seguito dalla giurisprudenza di legittimita' in occasione di una vicenda normativa per certi versi analoga a quella odierna, ossia a seguito della abrogazione dell'art. 324 c.p. effettuata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86. In questo caso, infatti, l'articolo menzionato e' del tutto scomparso dalla topografia del codice penale, tuttavia le condotte ivi descritte possono comunque ricomprendersi nella figura residuale dell'abuso di ufficio (art. 323 c.p.), ma cio' solo quando, alla stregua di una analisi dei singoli fatti concreti e delle relative contestazioni, le condotte punibili ex artt. 323 e 324 abrogati non solo contengano gli elementi costitutivi del reato descritto nel nuovo art. 323 c.p. ma siano stati anche enunciati nell'imputazione contestata all'imputato (cosi' S.U. 20 giugno 1990). Occorre, dunque, questa verifica per accertare se gli elementi dell'abrogato art. 341 c.p. siano ricompresi nella sfera del disvalore giuridico delineata dall'art. 594 c.p. o eventualmente del reato di cui all'art. 612 c.p. (qualora ricorra un oltraggio aggravato dalla minaccia, ex ultimo comma dell'art. 341 c.p.). Ne' puo' validamente obbiettarsi che nell'oltraggio vi e' sempre un duplice bene giuridico che riceve protezione, ossia oltre a quello primario del prestigio e del buon andamento della pubblica amministrazione, anche quello del prestigio individuale della persona fisica cui e' rivolta la frase o la condotta oltraggiosa. Al riguardo non e' ozioso rammentare che la tutela apprestata al p.u. prima della abolizione dell'art. 341 c.p. prevedeva un trattamento differente, non solo quanto al regime sanzionatorio in senso stretto ed alla procedibilita', ma anche in riferimento alla particolare posizione del soggetto passivo che richiedeva una tutela piu' penetrante agli occhi della collettivita', per la funzione esercitata, e nei cui confronti gli ambiti di critica e di censura legittima erano certamente piu' ridotti. Questa differenza, frutto storico del codice penale del 1930 e della sua originaria concezione autoritaria e saccrale dei rapporti tra pubblici ufficiali e cittadino, non e' stata del tutto cancellata negli anni neanche a seguito della nota sentenza, 24 luglio 1994, n. 341 della Corte cortestituzionale, che, nell'operare un ragionevole bilanciamento degli interessi che presiedono alla determinazione della misura della pena, ha eliminato dall'art. 341 c.p. il minimo edittale di sei mesi di reclusione. Per il resto la fattispecie ha conservato la sua autonomia giustificata soltanto dal diverso interesse di natura pubblicistico salvaguardato. Non costituisce soltanto un dato della realta' empirica che determinate azioni, se riferite ad un privato non possono acquistare alcuna potenzialita' offensiva, mentre se esercitate in presenza di un p.u., ed a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, possono assumere una valenza ben diversa. Ed in questo caso a venire tutelata non era tanto la dignita' professionale dell'individuo, al pari di qualsiasi altra attivita' in cui vi e' una dignita' professionale da tutelare, bensi' l'interesse del tutto particolare della pubblica amministrazione sotto la duplice specie del suo prestigio e del buon andamento di cui l'art. 341 c.p costituiva la norma di riferimento "e' alla obbiettiva lesione del prestigio che e' nell'esercizio della pubblica funzione che il legislatore ha riguardo, o alla causa dell'offesa, che proprio in quella funzione ha trovato origine: e cio al fine di evitare che, nel diffondersi del dileggio o della irrisione, la funzione stessa venga svilita al punto da favorire la generale inosservanza" (Corte costituzionale, ord. n. 323 del 1988). Una volta che il legislatore ha inteso eliminare, con l'abrogazione di cui ci si occupa, questa distinzione di trattamento, ponendo realmente il p.u. in una situazione di totale eguaglianza rispetto al cittadino, evidentemente i fatti giudicati con sentenza irrevocabile devono essere sottoposti ad un nuovo esame ad opera del giudicedell'esecuzione (investito della questione ex art. 673 c.p.p.), per distinguere: quei casi in cui, oltre alla lesione dell'interesse pubblico, vi sia anche una lesione (sia pure in via mediata o secondaria) dell'onore della persona fisica che impersona la pubblica funzione; da quelli in cui il destinatario dell'azione in precedenza oltraggiosa abbia ricevuto una lesione alla sua sfera personale assolutamente marginale (se non del tutto nulla) e tale da non assurgere, da sola, ad alcun valore penalmente rilevante. Nella fattispecie concreta ricorre proprio quest'ultima ipotesi in quanto dalla lettura della sentenza si ricava che l'unica azione di Mandala' Antonino, cristallizzata nell'imputazione, e' stata quella di aver proferito, in data 6 marzo 1994, la testuale frase: "Io non ho paura della vostra divisa in quanto voi non mi rappresentate nessuno", gridata contro alcuni agenti di P.S. che stavano procedendo ad un controllo automobilistico, seguente ad uno spericolato inseguimento stradale dell'imputato nelle vie cittadine di Palermo. L'unica ipotesi astrattamente configurabile e' quella dell'oltraggio, ex art. 341 c.p., in quanto i pp.uu. operanti non erano i destinatari diretti di apprezzamenti realmente ingiuriosi, ma sono stati soltanto il bersaglio mediato di uno sfogo verbale, sia pure irriguardoso e provocatoriamente ironico nella sua critica verso la loro funzione. Peraltro il fatto che l'imputato abbia fatto riferimento esplicito alla "divisa" indossata dai suoi interlocutori rende ancor piu' chiaro questo intento. La stessa condotta, avulsa da quel contesto e riferita ai suoi destinatari, ma a prescindere dalla pubblica funzione svolta, perde di ogni valenza e significato offensivo. Per conseguenza nel caso de quo, escludendo l'ipotesi dell'oltraggio, come visto depenalizzato, non residua nessuna altra ipotesi illecita entro i cui ambiti sussumere la condotta e certamente puo' operare la revoca della sentenza per effetto degli artt. 2, secondo comma c.p. e 673 c.p.p. Alla luce di queste premesse si ritiene rilevante la questione di legittimita' costituzionale sollevato dalla difesa, considerato che l'imputato Mandala' ha subito condanna per un fatto-reato depenalizzato e non ha ancora pagato le relative spese processuali. Non manifesta infondatezza Quanto alla non manifesta infondatezza si evidenzia che il principale argomento logico-giudico posto a fondamento dell'eccezione trae avvio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 98 del 26 marzo-6 aprile 1998 che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 188, secondo comma del c.p. nella parte in cui non prevede la non trasmissibilita' agli eredi dell'obbligo di rimborsare le spese del processo penale; da questa pronuncia puo' giungersi alla conclusione logica che la condanna in questione costituisca uno degli "effetti penali", (di cui all'ultima parte del secondo comma dell'art. 2 c.p.) e, come tale, dovrebbe cessare anche qualora secondo la legge posteriore un fatto non costituisca piu' reato. La Corte, infatti, nella menzionata sentenza ha argomentato ritenendo che il debito di rimborso delle spese processuali abbia mutato natura: "non piu' obbligazione civile retta dai comuni principi della responsabilita' patrimoniale, ma sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del regime giuridico e delle finalita' di questa". Questa nuova impostazione interpretativa si e' resa necessaria in virtu' dell'art. 56 della legge sull'ordinamento penitenziario che ha profondamente mutato il sistema preesistente. A mente di questo articolo, infatti, il debito per le spese del procedimento e di mantenimento in carcere e' rimesso nei confronti dei condannati e degli internati che si trovino in disagiate condizioni economiche ed abbiano tenuto regolare condotta. Secondo la Consulta la considerazione dell'istituto della remissione e', soprattutto, dei suoi requisiti oggettivi e soggettivi, il fatto che dal pagamento delle spese processuali il condannato che versi in disagiate condizioni economiche sia esentato se abbia osservato una condotta regolare, denota: "il penetrare nel rapporto obbligatorio tra condannato debitore ed erario creditore di una funzione estranea alla generalita' dei rapporti di diritto civile; dimostra il sopravanzare di un fine che trascende la sfera degli interessi patrimoniali delle parti ed il prevalere della rieducazione e del reinserimento del condannato sull'adempimento dell'obbligo economico. Peraltro la Corte costituzionale non ha mancato di evidenziare che, ai fini della rimettibilita' il debito per spese processuali viene assoggettato alla stessa disciplina di quello per le spese di mantenimento in carcere, la cui natura personalissima era gia' riconosciuta proprio dall'art. 188, secondo comma c.p. Una volta che la scelta legislativa e' stata quella di introdurre l'istituto della remissione del debito ed un volta che in questo sia dato rilievo ad indici di ravvedimento del condannato e all'esigenza di agevolarne il reinserimento sociale, non puo' non risentirne l'intera configurazione dell'obbligazione di rimborso delle spese processuali. Sulla scorta di queste argomentazioni la sentenza n. 98/1998 ha dichiarato l'illegittimita' della norma che consentiva la loro trasmissibilita' agli eredi vertendosi in tema di una "obbligazione, che non puo' non partecipare del carattere della personalita' che e' propria di tutte le pene, nessuna delle quali e' trasmssibile agli eredi poiche' questi non sono autori del reato ne' hanno dato in alcun modo causa al processo penale". La pronuncia, nel delineare una nuova qualificazione giuridica alle spese del processo penale non piu' obbligazione civile, ne' tanto meno pena accessoria), apre nuovi profili di riflessione in particolare nel caso di specie ove il Mandala', in virtu' del sistema in atto operante sarebbe egualmente obbligato a pagarle nonostante la dichiaranda declaratoria di revoca della sentenza di condanna a suo carico emessa. Cio' contrasta con gli artt. 3 e 27 Cost., sotto il profilo del canone della ragionevolezza delle classificazioni legislative, in quanto e' ben noto che nel caso della abolitio criminis la condanna viene revocata in virtu' di un processo legislativo evolutivo, che elimina dall'ordinamento il disvalore penale di una fattispecie incriminatrice in precedenza esistente. Mantenere, cio' nonostante, la condanna alle spese processuali, in presenza di una sentenza che viene di fatto eliminata in applicazione di una scelta normativa generale e senza alcuna interferenza del condannato, si traduce nel conservare irragionevolmente in vita una obbligazione che, secondo quanto ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 98, non puo' non essere partecipe del carattere della personalita' che e' propria di tutte le pene. Peraltro si palesa un secondo profilo di illegittimita' costituzionale per l'ingiustificata disparita' di trattamento che puo' procurarsi come effetto della depenalizzazione a seconda del verificarsi o meno del passaggio in giudicato della sentenza, anche per reati in ipotesi commessi nello stesso giorno, semplicemente in virtu' di un fatto puramente casuale quale puo' essere lo stato del processo: nel primo caso, infatti, pur dopo la revoca della sentenza di condanna resterebbero ancora dovute, qualora non fossero ricomprese tra gli effetti penali, nel secondo caso il giudice pronunzierebbe una sentenza di assoluzione (la Corte di cassazione emetterebbe una sentenza di annullamento senza rinvio), ovviamente senza alcuna condanna al pagamento delle spese processuali. Alla luce delle considerazioni che precedono la prospettata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, secondo comma c.p., la cui definizione risulta rilevante rispetto al giudizio in corso, va ritenuta non manifestamente infondata con conseguente sospensione della decisione ed invio del procedimento davanti al giudice delle leggi.